BARI Aprire un bar con personale esclusivamente donna e di colore nel rione più “nero” del capoluogo pugliese. E’ l’idea di un 53enne barese che dal 2012 ha dato vita al “Black lounge bar”, locale che conta due sedi a Libertà, il quartiere cittadino con la più alta concentrazione di immigrati africani. Il Black è gestito da otto donne che arrivano da Costa D’Avorio, Etiopia, Nigeria, Marocco e Cuba. Siamo andati a trovarle.

Entriamo nel primo bar e ci colpisce subito un cartellone che ritrae un donna nera intenta a scoccare un bacio. Proprio vicino a questa gigantografia, seduto su un divanetto, c’è il proprietario ad attenderci. Lui si chiama Vito Gesuito ed è un avvocato barese. Gli chiediamo il perché di questo progetto.

«Il mio obiettivo – ci dice – è quello di favorire l’integrazione dei tanti stranieri del rione, offrendo ad alcuni di loro un lavoro regolare e agli altri un luogo dove passare il tempo libero sentendosi “a casa”. Gli immigrati possono venire qui e farsi servire e chiacchierare con qualcuno che ha la sua stessa origine».

Del resto tra i residenti di colore del quartiere Libertà c’è anche la moglie di Vito, la 36enne Giusy. Il che forse spiega il perché di tanto “amore” per la popolazione nera da parte dell’avvocato barese. La incontriamo nel secondo bar, mentre è impegnata a tenere a bada il figlioletto Alex, un bambino mulatto di 9 anni. «Sono della Costa D’Avorio – evidenzia la donna – e 16 anni fa ho lasciato la mia terra per venire a studiare Giurisprudenza qui a Bari. Ma poi ho abbandonato gli studi per lavorare come baby sitter in una casa che si trovava vicino allo studio di Vito: è così che io e mio marito ci siamo conosciuti».

Insomma Giusy non è propriamente la tipica migrante che dà addio alla propria terra per fuggire da guerre e miserie. «Ma lei è una delle poche fortunate – tiene a sottolineare Gesuito –: le altre mie dipendenti invece sono approdate in Italia tra mille difficoltà, accresciute dal fatto che sono di genere femminile. Sono passate per la maggior parte da Lampedusa. Io voglio dar loro una possibilità di riscatto: se hanno voglia di lavorare una chance la devono ottenere».

Tra le donne impiegate c’è Vera, 27enne proveniente dalla Nigeria. «Abitavo a Benin City ed ero senza genitori, morti quando avevo 11 anni. Vivevo con una zia che mi maltrattava – racconta la giovane -. Così con l’aiuto di un’amica sei anni fa sono scappata in Libia da dove mi sono imbarcata raggiungendo prima Malta e poi la Sicilia. Dopo una breve esperienza a Roma e un anno a Corato come badante, sono entrata in contatto con un’amica dell’avvocato: grazie a questo “aggancio” oggi lavoro qui».

Meno traumatico è stato il percorso della sua collega Lauren, 20enne dalle treccine viola nata in Costa D’Avorio. «I miei genitori sono separati – ci dice la giovane -. Mio padre vive in patria ad Abdjan, mia madre è a Bari da 15 anni. È proprio grazie a lei che sono venuta a conoscenza di questa offerta di lavoro: così sei mesi fa ho lasciato l’Africa per darmi da fare nel Black lounge».

Tra le dipendenti c’è anche Gloria, che sfoggia un bellissimo sorriso ma non ha voglia di parlare. Invece vicino al bancone notiamo con sorpresa anche una ragazza bianca. Si tratta però della prima figlia di Vito, la 26enne Dalila, che si occupa di sbrigare le pratiche amministrative. Lei ci racconta di come gli italiani del rione hanno reagito all’apertura dei bar.

«All’inizio erano un po’ spiazzati di fronte a questa novità – afferma la giovane – ma con il tempo la maggior parte di loro ha preso coraggio e ci ha fatto visita. Oggi abbiamo diversi habitué. E pensare che un paio d’anni fa, mentre il virus ebola imperversava nell’Africa, alcuni clienti chiedevano addirittura alle bariste se avessero lavato le mani per il timore di un contagio. Speriamo però con il nostro progetto di far avvicinare sempre più i baresi agli stranieri. Del resto è ormai da anni che Bari è diventata una città multiculturale: non ve ne siete accorti?».

Vedi galleria fotografica

Fonte: BARINEDITA